La mia vita era a dir poco promettente.
Passavo le giornate sui libri e le nottate sui tetti, a fare parkour con il mio fratellino Killian.
La nostra era una normale famiglia: un padre sempre sul posto di lavoro, angosciato dal guadagnare ciò che serviva ai suoi figli, una madre stressata ma affettuosa, uno zio bislacco ed amante dei fumetti.
Il rapporto tra me e Killian era unico. Non ho mai voluto bene in modo così profondo e disinteressato a qualcuno come ne volevo a lui.
Eravamo sempre in competizione, ma una competizione sana, costruttiva, serena.
L’uno finiva le frasi dell’altro e ogni scherzosa sconfitta, in qualunque campo, dai videogames alla gara di corsa fino a casa, era una spinta per fare meglio la volta successiva.
Ricordo che quell’anno era stata davvero dura, ma ero riuscita a raggiungere il mio traguardo: mi ero guadagnata una borsa di studio per il MIT. Avrei realizzato il mio sogno.
Killian era già pronto a seguire le mie orme, un giorno. Aveva detto che sarei stata il suo eroe, ma che un giorno mi avrebbe superata e lui sarebbe stato il mio.
Ed attendevo con impazienza quel giorno.
Era da poco finito il primo semestre, quando lui morì.
E tutto mi crollò addosso.
Era sempre stato una testa calda... E si era lasciato avvicinare dalle compagnie sbagliate.
Avevo così tanta rabbia in corpo...
Lasciai stare ogni cosa.
I miei sogni, i suoi sogni, il MIT, la mia famiglia... Mi lasciai tutto alle spalle e mi arruolai nell’esercito.
Dovevo trovare un posto dove poter sfogare la mia rabbia e la mia frustrazione, dove il mio odio sarebbe stato utile a qualcuno.
Per un po’ sembrò andare tutto bene.
L’esercito era esattamente il luogo che cercavo e di cui avevo bisogno.
La mia rabbia fu domata, ma al contempo sfogata.
Mi feci persino strada e raggiunsi il grado di Maggiore.
Poi tutto cadde nuovamente.
Persi entrambe le braccia in missione. E con esse il mio superiore, il mio mentore, l’uomo che mi resi conto d’amare solo dopo averlo perduto.
Nonostante il dolore, non piansi.
Credo di essermi abituata così tanto alla perdita e al male lancinante che si porta dietro, che ormai nulla può più scuotere il mio animo.
Entrai volontariamente all’interno di un progetto segreto per protesi militari basate sulle tecnologie Stark.
Ricevetti le mie braccia, funzionanti, ma incomplete.
I responsabili del progetto continuavano ad addurre scuse a tutte le mie rimostranze.
Sembrava che non ci fossero mai abbastanza materiali, personale, fondi...
Scoprii solo dopo, quando ogni cosa venne insabbiata, che il progetto non era ufficiale e non era stato promosso né dall’esercito né dalle Stark Industries.
Sono stata congedata contro la mia volontà.
Dispongo di braccia meccaniche, imperfette ed incomplete, per la cui cura posso solo affidarmi alle conoscenze base che avevo appreso in gioventù.
E non posso più servire né il mio paese né nutrire la mia rabbia.
Ma non intendo restare a guardare.
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